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Tiziano Rinaldini: Democrazia, lavoro, lavoratrici e lavoratori

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In questa fase pre-elettorale i programmi degli schieramenti in campo sono accompagnati da interventi (nel variegato campo politico e culturale della sinistra) che forniscono contributi e proposte riferite agli impegni da assumere per le scelte dopo le elezioni. Gli stessi candidati spesso dichiarano loro intenzioni e interpretazioni dei programmi.

La mia attenzione tende a concentrarsi su un punto quasi sempre assente, o al massimo accennato (con poca chiarezza) come un punto tra tanti altri. Mi riferisco alla distruzione dei diritti sociali interni alla dimensione lavoro, e in questo quadro, alla negazione del diritto dei lavoratori e delle lavoratrici di rendere vincolati al loro voto rivendicazioni e accordi fatti sulla loro condizione a partire dai contratti nazionali. Ciò tanto più e soprattutto nel mettere a verifica e decidere su posizioni diverse.

Considero questa una questione centrale, cioè intendo dire che, senza che ne venga assunta la centralità, cambia il significato e la credibilità su tante altre questioni che pure la dovrebbero accompagnare. Questa considerazione non vuole richiamare precisazioni o dichiarazioni di condivisione, e neanche avere il tono di una critica lamentosa.

Peraltro vi sono singoli candidati e interventi nel dibattito in corso (non molti per la verità) che probabilmente condividono la valutazione espressa; va anche riconosciuto che nel programma della lista “Rivoluzione civile” vi sono affermazioni un po’ più impegnative rispetto agli altri programmi, anche se disperse nel grande mare degli intenti più vari.

Ciò che qui interessa è il riscontro che la questione posta non viene sentita e assunta come centrale nel pensiero e nella cultura critica della sinistra, tanto più nel porsi il problema di costruire le condizioni per un’alternativa politica, sociale ed economica. E’ un fatto il cui significato va al di là della vicenda elettorale in corso e di cui semmai la vicenda elettorale costituisce ulteriore conferma. Non pare a me credibile qualsiasi pur importante e condivisibile proposta di intervento sulla crisi se non accompagnata prioritariamente dall’affermazione dei diritti richiamati per i lavoratori e le lavoratrici, per ciascuno di noi nella dimensione lavoro. Si tratta della condizione primaria per cui gli uomini e le donne nel lavoro e nella ricerca di lavoro abbiano la possibilità di essere soggetto e non oggetto di un interesse politico a loro sovrapposto.

E’ utile forse ricordare che, mentre ferve il dibattito, lavoratori e lavoratrici subiscono modifiche delle loro condizioni che li consegnano all’unilaterale comando dell’impresa sulla base di contratti sottratti a qualsiasi validazione democratica.

Nel recente accordo separato dei metalmeccanici è stato così aumentato l’orario di lavoro che può essere imposto al lavoratore, e sono state rese derogabili praticamente tutte le voci di un contratto nazionale, la cui ragion d’essere è a questo punto ridotta ad un feticcio in nome del quale espellere dalle relazioni sindacali la contrattazione collettiva e i sindacati che non volessero conformarsi.

Nel gruppo FIAT si sono azzerate le conquiste del passato, devastati i diritti democratici dei lavoratori e imposto un proprio specifico contratto sostitutivo di quello nazionale senza neanche il diritto dei lavoratori di poterlo respingere con il voto; il voto è stato chiamato in causa “una tantum” solo per una sua parte minoritaria, in forma plebiscitaria e nei casi in cui era esercitatile un esplicito ricatto (o così o chiudiamo lo stabilimento). Questo modello sta imperversando (come ancora recentemente dimostra il caso del San Raffaele) in versioni adattate alle diverse situazioni, ma sempre con analogo significato.

Il voto dei lavoratori è quindi comunque negato come diritto dei lavoratori e considerato alla stregua di un’opzione di cui possano servirsi le aziende e una parte delle organizzazioni sindacali quando lo ritengano opportuno (e nelle forme di volta in volta arbitrariamente definite) per le situazioni lavorative sotto ricatto a fronte della decisione di imporre l’abbattimento di diritti (contrattuali e legislativi) conquistati in precedenza .

Si tratta di conquiste realizzate come vincoli generali di solidarietà fra tutti i lavoratori per tutelare nella condizione di lavoro e nelle libertà sindacali le parti dei lavoratori esposti di volta in volta a condizioni di debolezza. La priorità di tutto ciò si accresce ulteriormente per l’evidente effetto (consapevolmente perseguito) di squalificare lo stesso strumento della democrazia agli occhi dei lavoratori. Si potrebbe continuare con altri esempi del quadro che si sta determinando, ben al di là degli stessi meccanici; mi limito ad aggiungere per dovere di informazione che vi sono contratti nazionali sottoscritti che prevedono minimi salariali di 480 euro al mese.

La domanda che intendo porre è, per me, molto semplice.

Si può pensare di poter sostenere obiettivi e proposte di alternativa, o anche solo di reale cambiamento, se sul piano sociale i lavoratori e le lavoratrici sono espropriati dalla possibilità di poter decidere su ciò che interviene direttamente sulla loro condizione?

Se ciò non viene reso prioritariamente possibile ed esigibile, che cosa vuol dire oggi invocare la ripresa di un ruolo della politica rispetto all’economia, se non riproporre un ruolo antico e non più credibile (a sinistra e per la democrazia) per cui la politica sostituisce e non accompagna e favorisce nei processi un ruolo da soggetto sociale da parte degli uomini e delle donne nel lavoro e alla ricerca di lavoro?

E’ evidentemente persino auspicabile avere idee non di partenza condivise dalla maggioranza di coloro che compongono l’insieme di lavoratori sui quali intervengono rivendicazioni ed accordi. Non per questo si deve necessariamente cambiare idea e cessare di sostenerle. Ciò però richiede che le rivendicazioni e gli accordi siano assumibili o sconfessabili o modificabili sulla base di un percorso democratico da parte dell’universo dei lavoratori e lavoratrici interessati, chiamandoli a decidere tanto più a fronte di diverse posizioni in campo. E’ questa una condizione indispensabile per tentare di rendere efficaci e praticate le scelte, per assumere e rendere i lavoratori e le lavoratrici protagonisti dei processi da attraversare e per non ridurli a oggetto di una politica che prescinda da loro, anche quando si presenta con tante buone intenzioni.

Come dicevo in precedenza, la questione che si pone davanti a noi a me pare semplice, e urgente al punto tale che titoli come lavoro, democrazia, legge sulla rappresentanza si sprecano in questa fase senza quasi mai precipitare sul piano qui esposto, divenendo così contenitori vuoti, anzi predisposti per gli sviluppi più negativi (“il lavoro prima di tutto a prescindere dai diritti”). Anche il giusto richiamo alla non riducibilità della democrazia allo strumento del voto riconducendola ad un percorso di partecipazione, coinvolgimento e conquista di altri diritti, diviene perlomeno ambiguo se utilizzato per mettere in discussione il valore dello strumento del voto come connotato insostituibile per un qualsiasi percorso democratico di decisione.

Comunque colpisce la disattenzione con cui sinora a sinistra quasi generalmente nelle sue varie espressioni vengono seguite le operazioni che si stanno avviando per pervenire nella prossima legislazione alla eventuale legge sulla rappresentanza sindacale.

Senza una vera e propria campagna politica e culturale con al centro il diritto dei lavoratori e la democrazia l’intreccio pattizio e legislativo può divenire occasione di semplice consolidamento delle devastazioni antidemocratiche sulle libertà sindacali ed i diritti dei lavoratori, sino al diritto di sciopero (l’ultimo tassello da sistemare dopo l’articolo 8 della legge 168/2011 e l’art. 18).

In questo contesto di disattenzione generale la stessa iniziativa elettorale della CGIL sul lavoro si è svolta con una impostazione che (oltre a venir meno ad un ruolo mai storicamente dal dopoguerra in poi risolto in pura articolazione di uno schieramento partitico) ha significativamente evitato di porre centralmente la questione della democrazia per gli uomini e le donne nel lavoro. In conclusione si continua a guardare a questi temi come se fossero questioni laterali, di separato interesse delle parti sociali, riducendo a questo la stessa concezione della dimensione sindacale; non questioni centrali per cui la parola cittadinanza possa avere senso nella dimensione lavoro, e quindi tale da investire direttamente e centralmente il tema della democrazia e della sua attuale crisi.

L’apparente paradosso è che il problema posto non guarda nostalgicamente al passato, ma semmai, proprio perché consapevole della nostra storia, apre un problema nuovo su cui fondare il futuro ed interloquire con lo stesso problema che recentemente Rossana Rossanda ha messo a fuoco come connotato della fase attuale. Mi riferisco alla importante riflessione uscita su “Sbilanciamoci” ripresa anche da www.inchiestaonline (“L’io e la società, senza la politica”) a cui rinvio ed in specifico alla crisi dei corpi intermedi che regolano il passaggio da bisogni e desideri dei singoli a quelli del gruppo (di classe, dei proletari e non ).

Concludo con una personale riflessione sulla mia insistenza su quanto qui richiamato.

La svolgo sperando di poter sollecitare risposte.

E’ la mia una vana ossessione, o piuttosto la consapevolezza che lì si situa la controprova di un più generale buco nero che sta davanti al pensiero (e all’azione) politico e culturale della sinistra?

 

29 gennaio 2013. Il disegno all’inizio di questo intervento è del pittore e metalmeccanico in pensione bolognese Carlo Soricelli che lo ha pubblicato nel suo blog http://cadutisullavoro.blogspot.it . Questo blog è iniziato nel primo gennaio 2008 in ricordo dei sette giovani operai della ThyssenKrupp di Torino morti nel turno notturno del 6 dicembre 2007

 


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